I rimedii in caso di estinzione e di improcedibilità dell’esecuzione forzata: reclamo al collegio e opposizione agli atti esecutivi
Con un recentissimo provvedimento (Cass., 07-12-2018, n. 31695) la Suprema Corte è tornata a delineare il regime impugnatorio del provvedimento con cui il giudice dichiari l’improcedibilità della procedura esecutiva ovvero l’estinzione della stessa. Nel primo caso il provvedimento è impugnabile con l’opposizione agli atti esecutivi; nel secondo caso, l’impugnazione del provvedimento dovrà avvenire nelle forme del reclamo al collegio ex artt. 630 e 178 c.p.c.
L’estinzione è disciplinata nel processo esecutivo secondo uno schema analogo a quanto previsto per il rito ordinario di cognizione. Sono due le tipologie di estinzione dettate dal codice di rito: la prima, per rinuncia, da compiersi ex art. 629 c. 1 c.p.c. prima dell’aggiudicazione o dell’assegnazione e ad opera del creditore pignorante e dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo ovvero con la rinuncia di tutti i creditori concorrenti, qualora questa intervenga dopo la vendita. La seconda per inattività delle parti: si tratta di una categoria che comprende varie ipotesi previste dal codice e ricollegate ora ad un mancato compimento di un atto di impulso entro il termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice (ad es., iscrizione a ruolo, istanza di vendita, deposito della certificazione notarile, omessa riassunzione del processo esecutivo, ecc.), ora alla mancata comparizione all’udienza fissata ex art. 631 c.p.c.
Dottrina e giurisprudenza si erano variamente interrogate sulla possibilità di ammettere ipotesi di estinzione atipica, legata cioè alla possibilità che fosse il giudice a dichiarare l’estinzione al di fuori dei casi di rinuncia o di inattività delle parti espressamente disciplinati. La legge n. 69 del 2009, a simiglianza di quanto dettato per il rito ordinario di cognizione all’art 307 c. 4 c.p.c., contempla la declaratoria di estinzione del processo d’ufficio, senza che occorra più, come in passato, un’eccezione di parte tempestivamente proposta. È evidente come la previsione del potere di dichiarare d’ufficio l’estinzione del processo esecutivo risponda all’esigenza di evitare che i procedimenti gravino sul ruolo del Giudicante.
Figura distinta dall’estinzione è l’improcedibilità, con la quale ci si riferisce a qualunque vicenda (fuori dei casi di estinzione) che impedisca al processo esecutivo di giungere a una fisiologica conclusione con la completa realizzazione del suo scopo, per riconosciuta impossibilità di realizzarlo. Tale istituto, tradizionalmente ascritto alle ipotesi di estinzione atipica, trova ora disciplina negli artt. 164 bis e 187 bis disp. att. c.p.c. sulla chiusura anticipata per infruttuosità dell’esecuzione.
Estinzione e improcedibilità del processo esecutivo, pur avendo in comune la chiusura del processo esecutivo prima della sua canonica definizione, presentano numerosi tratti di differenza: l’estinzione si fonda sulla rinuncia o sull’inattività delle parti; l’improcedibilità sull’impossibilità di conseguire lo scopo satisfattivo dell’esecuzione forzata. È possibile cogliere delle differenze sia a livello sostanziale, dal momento che la sospensione della prescrizione opera solo per il caso di improcedibilità ex art 2945, c. 3, c.c., sia a livello processuale, con riferimento in particolare al regime impugnatorio del provvedimento: l’ordinanza che pronunci l’estinzione è soggetta a reclamo al collegio, quale previsto dall’art 630 c.p.c. e il collegio si pronuncerà con sentenza, soggetta ad appello con rito camerale (e dunque da proporre sempre con ricorso, anziché con citazione); l’improcedibilità (o estinzione atipica) va soggetta all’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.
Così, come ritenuto da costante giurisprudenza, nei casi in cui il giudice dell’esecuzione, esercitando il proprio potere officioso, dichiari l’improcedibilità (o l’estinzione cd. atipica, o comunque adotti altro provvedimento di definizione) della procedura esecutiva in base al rilievo della mancanza originaria o sopravvenuta del titolo esecutivo o della sua inefficacia, il provvedimento adottato in via né sommaria né provvisoria, a definitiva chiusura della procedura esecutiva, è impugnabile esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c.; diversamente, se tale provvedimento è adottato in seguito a contestazioni del debitore prospettate mediante una formale opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., in relazione alla quale il giudice dell’esecuzione abbia dichiarato di volersi pronunziare, il provvedimento sommario di provvisorio arresto del corso del processo esecutivo, che resta perciò pendente, è impugnabile con reclamo ai sensi dell’art. 624 c.p.c. Al fine di distinguere tra le due ipotesi, deve ritenersi decisivo indice della natura definitiva del provvedimento la circostanza che, con esso, sia disposta (espressamente o, quanto meno, implicitamente, ma inequivocabilmente) la liberazione dei beni pignorati (Cass., 22/06/2017, n. 15605; Cass. 08/05/2018, n. 10946; Cass., 07-12-2018, n. 31695).
L’opposizione agli atti esecutivi andrà proposta entro venti giorni dalla conoscenza legale del provvedimento dichiarativo dell’improcedibilità, con citazione se il credito è soggetto al rito ordinario, con ricorso se il credito deriva da uno dei rapporti di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c. in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale (v. l’art. 618 bis c.p.c.).
Perciò, quando il titolo esecutivo sia costituito dalla sentenza del giudice del lavoro che abbia liquidato le spese di lite, distraendole in favore del legale della parte ai sensi dell’art. 93 c.p.c., il credito avente ad oggetto le spese di lite costituisce un diritto autonomo del difensore, che sorge a favore di costui e nei confronti del soccombente e ha natura ordinaria, non condividendo la fonte genetica del credito laburistico o previdenziale fatto valere in giudizio nell’interesse della parte assistita. Si deve ritenere, pertanto, che non operi con riferimento al credito del difensore distrattario il rito del lavoro, non essendo riconducibile ad uno dei rapporti elencati negli artt. 409 e 442 c.p.c. (Cass., 07-12-2018, n. 31695; Cass., 06-12-2010, n. 24691).
Secondo quanto previsto nell’art. art. 618 c.p.c., comma 2, l’introduzione del giudizio di merito nel termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione “deve avvenire, analogamente a quanto previsto dall’art. 616 c.p.c., con la forma dell’atto introduttivo richiesta nel rito con cui l’opposizione deve essere trattata, quanto alla fase di cognizione piena”; pertanto, se la causa è soggetta al rito ordinario, il giudizio di merito va introdotto con citazione, da notificare alla controparte entro il termine perentorio fissato dal giudice, mentre l’eventuale concessione di un ulteriore termine per tale notifica o una nuova citazione ad iniziativa spontanea della parte sono ammissibili solo a condizione che, in relazione all’udienza di comparizione indicata dal giudice o indicata nel nuovo atto di citazione, venga rispettato il termine perentorio a suo tempo fissato dal giudice dell’esecuzione (Cass., 07-11-2012, n. 19264).
Nonostante l’art. 618 c.p.c. c. 2, non faccia riferimento espresso all’introduzione del giudizio di merito secondo le modalità previste in ragione della materia e del rito, diversamente da quanto esplicitamente previsto nell’art 616 c.p.c., la norma prevede che debbano essere osservati i termini a comparire di cui all’art. 163 bis c.p.c., ridotti della metà; ne deriva che anche la fase di merito dei giudizi di opposizione agli atti esecutivi debba essere introdotta con citazione, salvo che non sia previsto un rito speciale, come è per l’art. 618 bis cod. proc. civ., senza peraltro che possa darsi rilievo al fatto che la forma dell’introduzione dell’opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., comma 2, sia quella del ricorso, atteso che essa è relativa alla fase sommaria del giudizio, che è regolata altresì dall’art. 185 disp. att. cod. proc. civ.
L’opposizione, in esito all’eventuale fase di merito, è decisa con sentenza non appellabile, ma impugnabile solo con regolamento di competenza o con ricorso straordinario per cassazione.
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