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Abstract

Siamo giunti alla parte finale della nostra analisi.

Dopo avere esaminato l’evoluzione della disciplina e gli approdi giurisprudenziali in materia di responsabilità del produttore, quando il prodotto (alimento) non è “conforme” agli standard o alle aspettative, rimane da indagare la diversa ipotesi in cui il prodotto cagioni un danno pur essendo pienamente rispettoso delle une e delle altre.

Parte III

Il danno da prodotto conforme

Veniamo ora a trattare la diversa ipotesi in cui il danno sia cagionato da un prodotto di per sé non difettoso, ma che sia invece conforme alle aspettative e rispettoso delle regole tecniche eventualmente esistenti che lo riguardano. Ci si chiede, in buona sostanza, se il danno, in ipotesi del genere, sia oppure no risarcibile.

È emersa infatti da tempo la piena consapevolezza circa i rilevanti pericoli che possono derivare dall’utilizzo di prodotti pienamente conformi agli standard di sicurezza individuati dal legislatore. Ciò vale ad esempio per il consumo di prodotti derivati dal tabacco, per l’utilizzo di autoveicoli, per l’esposizione alle onde elettromagnetiche emesse dal telefono cellulare, per l’ingestione di alimenti la cui conservazione e igiene è conseguita anche attraverso la presenza al loro interno di sostanze chimiche potenzialmente dannose per la salute, per l’assunzione di farmaci che seppure indispensabili contengono sostanze capaci di scatenare rilevanti effetti collaterali, ecc. Questi costituiscono solo alcuni esempi di prodotti che conservano un ampio margine di dannosità, pur risultando pienamente conformi alle prescrizioni legali che ne regolano la sicurezza.

Il prodotto difettoso e il prodotto dannoso

Sotto questo profilo emerge quindi la fondamentale importanza assunta dalla distinzione tra prodotto difettoso e prodotto dannoso. Nella prima categoria ricadono i prodotti che risultino difformi rispetto alle caratteristiche delineate dalle norme tecniche standardizzate oppure, ove queste non siano presenti, definite dallo stato dell’arte; nella seconda categoria rientrano invece i prodotti dai quali possano scaturire rilevanti danni per coloro che li utilizzano o che vengano a contatto con essi.

Le due categorie coincidono solo occasionalmente: il prodotto non conforme rispetto alle caratteristiche tecniche descritte dal legislatore (quindi certamente difettoso) può sicuramente assumere in alcune circostanze un carattere dannoso, ma potrebbe in altri casi risultare completamente privo di rischi (si pensi ad esempio all’automobile o al telefono cellulare non funzionante e proprio per questo motivo assolutamente privi di rischi); al contrario, il prodotto conforme alle caratteristiche tecniche prescritte dalla legislazione sulla sicurezza potrebbe conservare significativi margini di dannosità proprio perché perfettamente funzionante. In quest’ultimo caso, l’utilizzatore si troverebbe ad aver subito un danno derivante da un prodotto pienamente conforme agli standard legislativi di sicurezza e utilizzato secondo modalità appropriate, ma ciò nondimeno caratterizzato da un’elevata capacità di produrre danni.

Il problema della responsabilità del produttore, per i danni cagionati da un prodotto conforme agli standard legislativi in materia di sicurezza, non emerge con chiarezza nell’analisi della casistica giurisprudenziale italiana. Questo rende impossibile individuare delle regole generali sulla base delle quali poter stabilire con sicurezza, per ogni tipologia di prodotto, se ricorre la responsabilità del produttore anche qualora i danni cagionati all’utilizzatore scaturiscono da un prodotto del tutto conforme agli standard legislativi.

In linea di prima approssimazione è possibile individuare tre categorie di decisioni: a) alcune affrontano il problema della responsabilità del produttore, la cui sicurezza è definita da standard legislativi, omettendo ogni riferimento a questi ultimi e ricavano il carattere difettoso del prodotto sulla base del criterio generico che si riferisce alla sicurezza che il consumatore può legittimamente attendersi nell’uso normale; b) un secondo gruppo di pronunce risolve il problema della risarcibilità di questi danni applicando la disciplina dell’articolo 2050 c.c., al posto di quella di derivazione comunitaria che regola la responsabilità del produttore; c) solamente in un limitatissimo numero di precedenti è stata colta la necessità di risolvere il problema della responsabilità del produttore adottando una lettura interpretativa in funzione della quale la difettosità del prodotto viene determinata sulla base di un rigoroso riferimento ai suddetti standard.

Le indicazioni che possono essere ricavate da questi precedenti testimoniano dunque che non vi è consapevolezza del problema e non permettono, come dicevamo, di estrapolare regole generali idonee a orientare con sicurezza l’interprete. Ad esempio, le decisioni in materia di danni derivanti da cosmetici o dall’utilizzo di apparecchiature mediche porterebbero a escludere la responsabilità del fabbricante per i danni provocati da un prodotto non difettoso, ossia conforme agli standard legislativi di sicurezza. Le decisioni invece nelle quali è stata affermata la responsabilità del produttore di sigarette o di un motoveicolo conforme agli standard di sicurezza europei forniscono indicazioni di segno opposto.

Ma c’è di più. Anche nell’applicazione dell’art. 2050 c.c. vi è parecchia confusione, perché non esiste una visione univoca quando si cerca di stabilire quando un’attività possa dirsi pericolosa.

L’analisi della casistica giurisprudenziale in tema di responsabilità per l’esercizio di attività pericolose è testimone di questa confusione di fondo, perché, allo stato attuale, risulta estremamente difficile individuare criteri sufficientemente precisi sulla base dei quali stabilire ex ante se un’attività rientra oppure no nel novero di quelle soggette all’applicazione dell’art. 2050 c.c.

Secondo un primo orientamento, più risalente, si dovrebbero infatti considerare pericolose le attività classificate come tali dal legislatore. Secondo altro filone, più recente, il novero delle attività pericolose dovrebbe essere ampliato, facendo ricorso a un criterio scientifico statistico. Questo criterio tuttavia non sembra confermato con una continuità sufficiente per essere considerato affidabile, tant’è che continuano a emergere in giurisprudenza precedenti singolari e soluzioni assai discutibili.

Gli standard di sicurezza

Come si è visto, dunque, vi è una situazione di incertezza assai rilevante. Nel tentativo di dare una qualche indicazione all’interprete, potremmo dire che, in una situazione del genere, questi dovrebbe anzitutto individuare le regole in ragione delle quali stabilire se il prodotto possa considerarsi ragionevolmente sicuro: qualora il prodotto risulti non rispettoso delle regole che ne definiscono la sicurezza potrà essere considerato difettoso e potrà quindi essere affermata la responsabilità del produttore, secondo quanto visto in precedenza. Nel caso in cui, invece, non sia riscontrabile alcuna violazione delle norme che individuano le caratteristiche costruttive del prodotto e degli standard di sicurezza che si devono rispettare sarebbe necessario operare una distinzione.

La responsabilità del produttore potrebbe cioè ricorrere qualora le norme tecniche armonizzate possano essere considerate funzionali a garantire solamente un livello minimo di sicurezza. In quest’ultimo caso, il loro rispetto non consentirebbe cioè di escludere, in termini generali, la responsabilità del produttore per i danni cagionati da prodotto conforme ma comunque dannoso. Diversamente, qualora gli standard prescritti dal legislatore assumano la valenza di limiti massimi di sicurezza si dovrà concludere che non sussiste una responsabilità in capo al produttore del prodotto conforme ma comunque dannoso.

Non è evidentemente questione da poco, soprattutto nel settore alimentare. L’impiego sempre più rilevante di additivi, la presenza di residui di pesticidi impiegati in agricoltura, la divisione di cibi nuovi ottenuti mediante procedimenti di modificazione genetica (OGM) determinano infatti la costante esposizione dei consociati a significativi fattori di rischio per la salute anche in presenza di prodotti conformi. In altri termini, si riscontra un’allarmante espansione delle fattispecie in cui nonostante il rispetto di tutte le regole che la legge prevede per tutelare la salute dei consumatori residuano margini di pericolosità. Per questo motivo è proprio in campo alimentare che la distinzione tra prodotto difettoso e prodotto dannoso assume rilievo, anche alla luce di quanto subito diremo nel paragrafo che segue.

Le considerazioni appena svolte valgono con maggior ragione qualora lo stato della conoscenza scientifica e tecnica al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto non permetteva di considerarlo difettoso ai sensi dell’art. 118 lett. e) cod. cons. (è la c.d. esimente per i danni da ignoto tecnologico), per cui il danno non poteva essere in alcun modo previsto al momento della commercializzazione, tanto da costituire un effetto collaterale e del tutto inatteso dell’uso del prodotto.

Accade che prodotti innovativi, in un primo momento largamente utilizzati proprio per le loro capacità di migliorare la qualità della vita, prevenire o debellare malattie, evitare incidenti o infortuni, rivelino poi, a distanza di tempo, effetti collaterali gravi e imprevedibili. È il caso, ad esempio, del D.D.T., largamente utilizzato come efficace insetticida capace di debellare patologie come il tifo e la malaria e che poi si è rivelato, a distanza di anni, portatore di effetti nocivi irreversibili sull’ambiente e sulla salute umana. Anche l’amianto, diffusamente impiegato nell’edilizia abitativa per le sue capacità ignifughe, si è rivelato dopo tempi di latenza molto estesi causa di patologie dall’esito letale. Ma se si dovesse applicare l’art. 2050 c.c., in questi casi, l’esimente verrebbe vanificata (l’applicazione dell’articolo 2050 c.c. condurrebbe a considerare il produttore sempre e comunque responsabile anche per i danni provocati da alimenti che al momento dell’immissione in commercio risultavano prodotti nel rispetto delle regole tecniche e delle regole d’igiene e di sicurezza imposte dalla legge e specificamente dalle norme tecniche).

Per giustificare l’applicazione dell’articolo 2050 c.c. si è cercato allora di attribuire rilevanza al principio di precauzione. A mente dell’art 7 Reg. UE n. 178/2002, infatti, “Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permangono situazioni di incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessari per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio”.

La possibilità di liberarsi, ai sensi dell’art. 118 lett. e) cod. cons., dalla responsabilità adducendo la mancanza di conoscenze scientifiche circa la pericolosità del prodotto al momento della sua commercializzazione (c.d. rischio da sviluppo) sarebbe, secondo alcuni Autori, in contrasto con il principio di precauzione che l’art. 7 sancisce in termini generali per tutti i prodotti alimentari; non vi sarebbe dunque ostacolo alcuno nell’applicare la disciplina dell’art. 2050 c.c. In realtà, la soluzione interpretativa appena illustrata evidenzia, con particolare riferimento alla responsabilità dei produttori di alimenti, perplessità che possono porsi in termini più generali. È controverso infatti che il principio di precauzione possa essere invocato dall’autorità giudiziaria nei rapporti tra privati. La giurisprudenza comunitaria (Corte Giust. CE 9/09/2003, n. 236/01) ha chiarito infatti che il principio di precauzione è eminentemente rivolto alle autorità amministrative che sono chiamate a trasformare la generica enunciazione del principio di precauzione in misure concrete e circostanziate dopo aver operato, anche con il supporto di organi scientifici accreditati, una valutazione dei rischi e attuato un contemperamento tra le esigenze di tutela della salute indicate dalla scienza e altri interessi che vengono di volta in volta in considerazione. In questa prospettiva, si potrebbe affermare dunque che il giudice chiamato a stabilire se possa oppure no applicarsi l’art. 2050 c.c. non possa fare riferimento alla generica enunciazione del principio di precauzione, né interpretare autonomamente eventuali dati epidemiologici statistici che indicano un’elevata capacità di un prodotto di causare danni; egli dovrebbe invece allinearsi alle espressioni circostanziate del principio di precauzione sancito dal legislatore e dalle autorità amministrative legittimate da quest’ultimo. La soluzione dovrebbe essere ricercata altrove. Adottando questa impostazione, si potrebbe cioè ipotizzare che le discipline di settore che riguardano particolari categorie di beni, oltre a definire il concetto di sicurezza del prodotto, possano essere chiamate a svolgere una funzione ulteriore. È nel loro ambito, cioè, che dovrebbero essere ricercate le indicazioni circa il carattere ordinario o pericoloso del prodotto oggetto della disciplina e quindi giustificare l’applicazione del regime di responsabilità prevista dall’articolo 2050 c.c. in luogo delle regole dettate con riferimento alla responsabilità del produttore.

La possibilità di assoggettare i produttori di alimenti o quantomeno di determinare categorie di alimenti alla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose dovrebbe dipendere, in altri termini, dalle esplicite indicazioni che il legislatore fornisce riguardo al carattere pericoloso del prodotto e non dall’eventuale evidenza scientifica che dimostri un’elevata capacità di procurare danni alla salute dei consumatori (c.d. criterio statistico), né questo dato potrebbe essere ricavato sulla base di un utilizzo diretto del principio di precauzione enunciato in termini generici.

Il danno dovuto alla particolare sensibilità del danneggiato ai componenti del prodotto

Trattiamo infine il caso in cui il danno sia dovuto alla particolare sensibilità del soggetto danneggiato a uno o più dei componenti del prodotto. Per comprendere la fattispecie di cui si parla, basti fare l’esempio dell’intolleranza a uno dei componenti dei farmaci, delle sigarette, o, in campo alimentare, dell’alimento. Si tratta di una ipotesi caratterizzata dal fatto che il danno si verifica a causa del concorso di una particolare circostanza e, cioè, della sensibilità dell’utilizzatore all’alimento o a uno o più dei suoi componenti. L’attenzione si concentra, in questi casi, più che altro, sul ruolo dell’informazione che deve essere data al consumatore. Se è vero cioè che il danno è strettamente connesso alla persona del danneggiato (in questi casi, si prende a parametro, evidentemente, il consumatore medio, non il singolo danneggiato), allora è necessario che questi venga informato prima, cioè che venga messo nella condizione di astenersi dal consumo o di adottare eventuali cautele in modo da eliminare o limitare il verificarsi del danno. Anche se ciò non è poi sempre possibile (basti pensare all’ipotesi del farmaco salvavita). Questa è la problematica centrale della fattispecie di cui si discorre. Qui va detto che gli standard tecnici (quando esistono, ovviamente) disciplinano di solito anche il contenuto degli obblighi informativi con dovizia di particolari (in tema di prodotti alimentari, a livello generale, vale ovviamente il Reg. UE n. 1169/2011).

In linea di principio, in situazioni del genere, in base all’applicazione congiunta delle regole risarcitorie generali e delle regole pubblicistiche che impongono doveri di informazione, il produttore di alimenti dovrebbe ritenersi responsabile solo in presenza di difetti di informazione che costituiscono violazione di prescrizioni di legge. L’analisi della casistica giurisprudenziale conferma questo assunto. È stata affermata, ad esempio, la responsabilità del produttore di giocattoli per aver omesso di fornire informazioni sulla cautele da adottare nell’apertura della confezione (Trib. Rimini, 31/12/2008), a fronte di uno specifico dovere di informazione sancito dalla legislazione di settore (D. legisl. n. 313/1991, allegato III). Così pure la decisione con la quale è stata sancita la responsabilità del produttore di caffettiere per avere omesso le indicazioni relative a un loro uso sicuro (Trib. Vercelli, 7/04/2003), nonostante la legislazione di settore imponesse al produttore obblighi di informazione ben precisi (D. legisl. n. 108/1992, all’epoca vigente). Si tratta peraltro, con tutta evidenza, di una conclusione di massima.

Non è detto infatti che la corretta informazione escluda sempre il risarcimento del danno, almeno in quelle ipotesi in cui li consumatore si trovi nella condizione di non poter scegliere e cioè debba necessariamente assumere il prodotto (è il caso del farmaco salvavita, accennato in precedenza). In casi del genere, si potrebbe forse indagare l’applicabilità degli artt. 1227 c.c. e 122 cod. cons. sul concorso di colpa del danneggiato per limitare, ma non escludere, l’entità del risarcimento del danno. Ai sensi dell’art. 1227 c.c. infatti “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”. A sua volta l’art. 122 cod. cons. prevede che “Nell’ipotesi di concorso del fatto colposo del danneggiato il risarcimento si valuta secondo le disposizioni dell’art. 1227 c.c. Il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente esposto”.

È un tema in ordine al quale il dibattito è aperto. In linea di prima approssimazione, si potrebbe distinguere, come dicevamo, il prodotto voluttuario (ad esempio le sigarette) da quello non voluttuario ma necessario (ad esempio il farmaco), relegando il valore esimente di una corretta informazione solo alla prima ipotesi, ma non alla seconda. L’avere tenuto comunque un comportamento rispettoso delle regole potrebbe avere per il produttore l’effetto positivo di limitare l’entità del risarcimento dovuto, escludendo ad esempio il riconoscimento dei punitive damage (ove ovviamente previsti). Se non altro, ciò consentirebbe lo sviluppo di un mercato assicurativo (al pari di quello che avviene negli USA) che potrebbe assorbire almeno in parte il rischio che così finirebbe col gravare non più sul produttore, in quanto coperto appunto da idonea polizza assicurativa.

L'articolo La responsabilità civile del produttore,in particolare del produttore di alimenti: il danno da prodotto conforme sembra essere il primo su Euroconference Legal.

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