La vexata quaestio della revocatoria della scissione e della tassatività dei rimedi endosocietari
Sentenza n. 13871/2018 Tribunale Roma, Sez. Fallimentare, pubblicata il 5 luglio 2018
Parole chiave: scissione societaria – operazione di riorganizzazione – fattispecie a formazione progressiva – invalidità della scissione – tassatività dei rimedi endosocietari – inefficacia della scissione – revocatoria fallimentare – inesperibilità
“In tema di fallimento, non rinvenendosi con la scissione alcuna cessione a titolo gratuito, né alcun atto dispositivo incidente sul patrimonio della società scissa, ma soltanto una nuova organizzazione societaria, attraverso l’attribuzione ai soci della scissa della partecipazione nelle società beneficiarie, non è ammissibile l’azione revocatoria prevista dall’articolo 64 della legge fallimentare.”
Disposizioni applicate: artt. 64, 67 l.f., artt. 2503, 2504-quater, 2506, 2506 bis, 2506-ter, 2506-quater, 2901 c.c.
Il Tribunale di Roma con la sentenza n. 13871/2018 costituisce un ulteriore contributo giurisprudenziale sull’annoso tema dell’esercizio dell’azione revocatoria, ai sensi degli artt. 2901 c.c. e 64, 67 l.f., al fine far dichiarare la inefficacia dell’operazione di scissione nei confronti del creditore procedente.
Ci si chiede infatti se il sistema di tutele tipiche e tassative designate in ambito endosocietario sia sufficiente a garantire i creditori sociali anteriori ovvero se questi ultimi, allorquando siano lesi nel loro diritto di credito, possano avvalersi degli strumenti di diritto comune (a seconda dei casi, revocatoria ordinaria o fallimentare). Il tema è di grande interesse, in quanto si contrappongono due opinioni nella giurisprudenza meritoria (nessuna della quali può dirsi prevalente), nella totale assenza di una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione sul punto.
Un primo orientamento giurisprudenziale ammette il rimedio revocatorio in quanto, si osserva, nessuna norma positiva lo esclude, inoltre l’impossibilità di far dichiarare l’invalidità della scissione avvenuta l’ultima iscrizione dell’atto nel Registro Imprese (art. 2054 cc) è altra cosa rispetto alla pronuncia di inefficacia (relativa) conseguente alla revocatoria. Opposizione e azione revocatoria costituiscono rimedi aventi presupposti, effetti e finalità diverse: il primo di natura preventiva e “sospensiva” dell’atto; il secondo diretto all’inefficacia dell’operazione già compiuta in quanto lesiva del diritto di credito azionato (cfr. in tal senso Trib. Catania sentenza 9 maggio 2012 e Trib. Palermo 25 maggio 2012, richiamati dalla pronuncia in commento).
Specularmente v’è chi invece sostiene l’inammissibilità in caso di scissione dell’actio pauliana, (i.e. revocatoria) argomentando che il sistema di tutele endosocietario (opposizione; responsabilità solidale delle società partecipanti; e risarcimento danni) è tassativo e tipico; e che il Legislatore con il principio di cui all’art. 2504 cc ha voluto garantire l’irreversibilità dell’operazione; infine che la stessa natura giuridica della scissione (operazione riorganizzativa che costituisce modifica statutaria) è ostativa all’applicabilità del rimedio revocatorio che presuppone una diminuzione della consistenza patrimoniale della società debitrice (cfr. in tal senso Trib. Bologna 1 aprile 2016, richiamato dalla sentenza in commento, Trib. Roma 7 novembre 2016, Trib. Modena 22 gennaio 2016 e C. d’App. Catania 19 settembre 2017).
La controversia, nella fattispecie, traeva origine da una scissione “parziale”, attraverso la quale la società scissa aveva assegnato il proprio ramo d’azienda (relativo all’attività di costruzioni) ad una beneficiaria (nel caso di specie, di nuova costituzione). Di lì a breve la scissa sarebbe fallita ed il curatore del fallimento – come di regola accade quando le operazioni straordinarie sono poste in essere in un momento in cui la società versi già in stato di dissesto – avrebbe agito in revocatoria (ex artt. 2901 cc e 64, 67 l.f.) nei confronti dalla beneficiaria e del socio unico di quest’ultima, al fine di rendere inopponibile l’operazione al fallimento.
Com’è noto la scissione, introdotta nel nostro ordinamento solo nel 1991 (D.Lgs. 16/11/1991 n. 22) in attuazione della Direttiva 82/891 CEE del 17/12/1982 – VI Direttiva (mentre trasformazione e fusione erano presenti già nell’impianto originario del codice), è quell’operazione straordinaria connotata da uno schema causale in base al quale una i)società assegna tutto il proprio patrimonio a due o più beneficiarie (in caso contrario si realizzerebbe una fusione per incorporazione della scissa nella beneficiaria) ovvero parte del proprio patrimonio (in tal caso anche) ad una o più beneficiarie e, correlativamente, ii) i soci della scissa ricevono in concambio partecipazioni (azioni o quote, oltre eventuale conguaglio in denaro, non superiore però al 10% del valore nominale delle partecipazioni) nella beneficiaria/e o nella stessa scissa (cd. scissione asimmetrica) sulla base del rapporto di cambio negoziato dai relativi organi amministrativi. Con l’operazione in parola, pertanto, la scissa può attuare il proprio scioglimento (senza dover attuare la procedura di liquidazione) ovvero continuare la propria attività. “Assegnataria” può essere sia una società preesistente sia una neo costituita.
La prassi conosce molteplici schemi con i quali attuare la scissione, in particolare, essa può essere: i) totale o parziale (art. 2506 c.1 cc); ii) omogenea o eterogenea (artt. 2500 septies e 2500 octies); iii) simmetrica o asimmetrica (art. 2506 c.2 cc); iv) proporzionale o non proporzionale (art. 2506 bis c.4 cc); v) inversa (beneficiaria partecipata dalla scissa), e così via. Tant’è che la più accorta dottrina ha parlato di “polimorfismo” della scissione, preferendo utilizzare la locuzione al plurale (scissioni) invece che al singolare. Ciò nonostante la tecnica legislativa utilizzata dal Legislatore è stata quella del rinvio, per quanto non espressamente disposto, alle norme in tema di fusione (art. 2506 ter cc).
Con essa quindi la scissa assegna elementi patrimoniali attivi ma anche passivi (debiti, passività fiscali ecc.) alla beneficiaria/e. In caso di assegnazione di passività si ricorda come sia ammessa (cfr. Massima notarile Triveneto L.E.1 e Milano n. 72) la cd. scissione “contabilmente negativa” mentre deve ritenersi inammissibile la scissione “realmente negativa” (ove il valore economico/reale delle passività assegnate è superiore a quello delle attività). Il motivo è evidente: in tal caso non potrebbe esservi alcun concambio in favore dei soci della scissa.
La pronuncia in commento aderisce alla tesi per cui la domanda di revocatoria proposta dal fallimento della scissa sarebbe inammissibile, rilevando in proposito come “l’individuazione della natura giuridica della scissione” sia a tal fine pregiudiziale e decisiva.
Secondo una prima opinione (cd. teoria estintiva-traslativa), diffusa soprattutto nella giurisprudenza anteriore alla riforma del 2003, la scissione societaria sarebbe assimilabile ad una vicenda di natura successoria a titolo particolare (in caso di scissione parziale) ovvero a titolo universale (in caso di scissione totale) e traslativa dei beni in favore della/e beneficiaria/e; con conseguente estinzione dell’ente scisso.
Secondo altra tesi (cd. teoria modificativo-evolutiva), ormai da tempo largamente prevalente e preferibile, con la scissione si verificherebbe una mera riorganizzazione e riallocazione delle risorse dell’ente che non darebbe luogo né a estinzione (della scissa) né a trasferimento (alle beneficiarie), essendovi per converso continuità di patrimonio e identità di soggetto ancorché in un mutato assetto organizzativo. In ultima istanza, quindi, una vicenda evolutiva di modifica degli statuti delle società coinvolte. Dello stesso avviso è il Tribunale di Roma il quale ha correttamente rilevato che la scissione “non è dal punto di vista strutturale, e degli effetti, un negozio traslativo, ma configura un’operazione societaria tipica a formazione progressiva, volta ad ottenere una nuova articolazione formale dell’ente, nella prospettiva della continuità patrimoniale, oltre che dell’attività di impresa”.
Da un’interpretazione sistematica e letterale dell’istituto vediamo infatti come da un lato, il Legislatore abbia preferito riformulare la norma in termini di “assegnazione” e non di “trasferimento” e dall’altro, abbia precisato come la società “può con la scissione attuare il proprio scioglimento senza liquidazione, ovvero continuare la propria attività” (art. 2506 c. 1 e 3 cc).
Tale natura giuridica sarebbe già di per sé sufficiente ad escludere il rimedio revocatorio, mancando il presupposto legale fondamentale del trasferimento degli asset dalla scissa alla beneficiaria (“atto di disposizione”), che darebbe luogo ad un mutamento della garanzia generica del creditore costituita dal patrimonio della società (art. 2740 cc).
Come sottolinea tuttavia la stessa Sezione Fallimentare capitolina altri indici normativi escludono l’esperibilità dell’actio pauliana nei confronti della scissione.
La tutela dei creditori sociali sarebbe infatti rassegnata all’impianto tassativo e tipico delineato in ambito endosocietario: “a monte” dell’operazione, dal diritto di opposizione; e “a valle” dal diritto al risarcimento danni e dalla responsabilità solidale delle società coinvolte.
Quanto all’opposizione, ai sensi dell’art. 2503, la scissione “può essere attuata solo dopo sessanta giorni” dall’ultima delle iscrizioni della delibera di scissione (salvi i casi di cui agli artt. 2503 e 2501 sexies cc ovvero in cui il Tribunale, nonostante l’opposizione, ritenga infondato il pericolo di pregiudizio per i creditori). Trattasi quindi di rimedio i) preventivo (esercitabile nel periodo intercorrente tra la delibera di approvazione del progetto e l’atto di scissione), di natura, secondo i più, ii) giudiziale (anche se autorevoli opinioni depongono per la natura stragiudiziale). Legittimati attivi sono i creditori anteriori (ossia quelli il cui credito sia sorto prima della pubblicazione del progetto di scissione, ancorché si tratti di credito condizionale o contestato). L’opposizione è finalizzata ad ottenere una pronuncia giudiziale di sospensione degli effetti della delibera di scissione, impedendo la stipula dell’atto di scissione (condizione legale di efficacia dell’operazione).
Orbene, si tenga presente che una volta iscritto l’atto di scissione nei competenti Registri Imprese opera il principio di irretrattabilità degli effetti della scissione per cui non può più essere dichiarata la invalidità dell’operazione (art. 2504 quater cc). La ratio della regola è evidente: garantire la stabilità degli effetti e dei rapporti instaurati a seguito dell’operazione, anche nei confronti dei terzi, evitando l’incertezza che potrebbe sorgere dal ripristino della situazione ante scissione. L’iscrizione dell’atto avrebbe quindi una totale efficacia sanante, operando per ogni tipo di vizio.
A questo punto i creditori potranno azionare gli strumenti “a valle”: da un lato il risarcimento per i danni direttamente subiti a seguito dell’operazione (2504 quater c. 2 e 2506 ter c.5 cc) e dall’altro l’azione nei confronti delle società coinvolte che rispondono solidalmente dei debiti insoddisfatti, seppure intra vires, nei limiti della quota di netto patrimoniale assegnato (artt. 2506 bis c. 3 e 2506 quater c.3 cc). Si noti in particolare, benché, la distinzione passi pressoché inosservata che tale responsabilità seppur solidale si atteggia in modo diverso a seconda che: i) la destinazione degli elementi passivi sia desumibile in modo certo dal progetto di scissione, in tal caso la non assegnataria della passività risponderà solidalmente ma in via sussidiaria, e cioè per i debiti non soddisfatti dalla assegnataria della passività (art. 2506 quater, comma 3, cc); ovvero ii) tale destinazione non sia desumibile dal progetto (2506 bis, comma 3, cc), poiché si avrà una responsabilità solidale e diretta delle società coinvolte, in ogni caso entro il limite del valore effettivo del patrimonio netto.
La differenza non è di poco conto (anche se l’interpretazione fatta propria della giurisprudenza ne ha notevolmente ridotto la portata): nel caso di cui all’art. 2506 bis cc, non essendo possibile stabilire a carico di quale società sia stato posto il debito, il creditore della scissa potrà agire indifferentemente e direttamente nei confronti di tutte le società coinvolte nell’operazione (responsabilità solidale e diretta); nell’ipotesi invece prevista dall’art. 2506 quater cc, essendo invece possibile stabilire a carico di quale società sia stato posto il debito, il creditore della scissa potrà agire in primo luogo nei confronti della società assegnataria del debito e, qualora insoddisfatto, e in via sussidiaria, nei confronti dell’altra beneficiaria (responsabilità solidale e sussidiaria). Come anticipato, nonostante il diverso tenore delle norme citate, parte della Giurisprudenza sostiene che al fine di attivare la responsabilità solidale e diretta di tutte le società (assegnataria o non assegnataria della passività) sia sufficiente la semplice messa in mora dell’assegnataria (si tratterebbe quindi non di un vero beneficium excussionis ma di un più debole beneficium ordinis).
Rileva peraltro il Tribunale, con riferimento all’ulteriore profilo dell’eventus damni, che “se l’effetto ultimo dell’azione revocatoria è volto a consentire il soddisfacimento coattivo del creditore sui beni del proprio originario debitore, (come se essi non fossero mai usciti dal patrimonio di quest’ultimo soggetto attraverso l’atto revocando) la disciplina legale dell’operazione societaria considerata già consente un simile risultato […] dato che la solidarietà ex lege prevista sterilizza sostanzialmente il profilo dell’eventus damni”. Sottolineando come “la ratio sottesa all’art. 2503 cc ed il fondamento dell’art. 2901 cc risultano, nei rispettivi settori normativi, perfettamente coincidenti: l’interesse perseguito del legislatore infatti, nell’uno e nell’altro caso, consiste nel dotare i creditori di uno strumento volto alla conservazione della garanzia patrimoniale di cui all’art. 2740 cc”.
Per completezza, non si deve dimenticare che i creditori sociali potrebbero astrattamente agire anche nei confronti degli amministratori e dei sindaci (azione risarcitoria per danno da scissione). Non volendo addentrarci, tuttavia, sulle (quasi) insormontabili difficoltà in punto di onere della prova (dimostrazione di un danno diretto ed effettivo e non solo potenziale; nesso causale diretto tra condotta e danno arrecato) è bene ricordare come la Cassazione 17 aprile 2015 n. 7914 abbia affermato in argomento che “la scissione non può considerarsi atto gestorio … imputabile all’amministratore, essendo invece atto della stessa società amministrata, ai cui soci spetta la scelta di procedervi”.
Anche in questo ambito si ripropone, mutatis mutandis, il tema del bilanciamento e contemperamento fra interessi e diritti individuali (dei creditori sociali, uti singuli) e l’interesse più generale alla certezza ed alla stabilità dei rapporti medio tempore prodotti. E, ancora una volta, il Legislatore pare optare, con la formulazione dell’art. 2504 quater cc, per quest’ultimo interesse a parziale (ma non totale) sacrificio del primo, concedendo una tutela (affievolita) risarcitoria in luogo di quella reale.
D’altro canto, si può arguire, non vi sarebbero particolari ragioni per proteggere colui il quale, seppur dotato di sufficienti strumenti per garantire il proprio credito (prima dell’operazione con l’opposizione e successivamente con la tutela aquiliana del credito e con la responsabilità solidale delle società coinvolte), non si sia attivato con la tempestività necessaria al fine di impedire che la fattispecie a formazione progressiva (scandita essenzialmente da tre fasi ben distinte e temporalmente cadenzate: progetto di scissione, delibera di approvazione del progetto, atto di scissione) possa essere interamente completata.
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