Promittente venditore che non sia proprietario del bene e limiti alla risoluzione del contratto di vendita per inadempimento
Cassazione civile, sez. II, 16 gennaio 2020, n. 787. Presidente Manna, Estensore Tedesco
“L’articolo 1479 c.c., comma 1, non è applicabile al contratto preliminare di vendita perché, indipendentemente dalla conoscenza del promissario compratore dell’altruità del bene, fino alla scadenza del termine per stipulare il contratto definitivo, il promittente venditore può adempiere all’obbligo di procurargliene l’acquisto; invece, nel contratto di vendita, se il compratore ignora l’altruità del bene, già al momento della stipula di detto contratto il venditore è inadempiente all’obbligo di trasferirgli la proprietà del bene. Da tale principio si ricava, da un lato, che i promissari acquirenti, seppure ignari dell’altruità della cosa, non possono chiedere la risoluzione del contratto prima della scadenza del termine; dall’altro, per una ragione speculare, che i promissari acquirenti non sono inadempienti se, nonostante la maturazione del termine previsto per la stipula del contratto, il promittente venditore non sia ancora proprietario del bene”.
CASO
Il promittente venditore, in qualità di parte di un contratto preliminare di compravendita avente ad oggetto un immobile, citava in giudizio dinnanzi al Tribunale di Roma i promissari acquirenti, chiedendo l’accertamento dell’avvenuta risoluzione del contratto per inadempimento, derivante dall’inutile decorso del termine previsto per la stipula del contratto definitivo, tutto ciò in conformità con la clausola risolutiva espressa prevista nel contratto preliminare. Il promittente assumeva di aver comunicato ai promissari, a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, l’avvenuto perfezionamento del procedimento di condono. Chiedeva inoltre il rilascio dell’immobile da parte dei promissari, immessi nella disponibilità di questo sulla base di un distinto contratto di comodato.
I convenuti eccepivano la mancata convocazione davanti a notaio per la stipula del contratto definitivo, condizione a cui era subordinata l’operatività della clausola risolutiva espressa. Eccepivano inoltre, che il promittente venditore non fosse proprietario dell’immobile al momento dell’introduzione del giudizio, ma che avesse acquisito il titolo solo successivamente. Eccepivano ancora la diversa natura del contratto in forza del quale erano nella disponibilità dell’immobile, ritenendolo una locazione e non un comodato, stante la previsione del versamento di un corrispettivo, e dunque asserivano la mancanza del diritto del promittente di recesso ad nutum.
La causa introdotta dal promittente venditore veniva riunita con quella iniziata dai promissari acquirenti, che chiedevano l’adempimento in forma specifica del contratto preliminare.
SOLUZIONE
Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda dei promissari acquirenti e rigettava la domanda del venditore, ritenendo non provata l’avvenuta comunicazione del buon esito della pratica di condono.
La Corte d’Appello di Roma riformava la sentenza, ritenendo sussistere i presupposti per la risoluzione di diritto, in particolare perché giudicava provata l’avvenuta comunicazione ai promissari dell’esito positivo del condono, sulla base della presunzione di cui all’art. 1335 c.c. Infine, ordinava il rilascio dell’immobile da parte dei promissari in conformità con l’art. 1810 c.c. poiché qualificava il contratto come comodato senza determinazione di durata.
La Corte di Cassazione cassava la sentenza di appello per i seguenti motivi: per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, dato dalla circostanza che il promittente venditore aveva conseguito la proprietà dell’immobile promesso in vendita solo dopo l’introduzione della causa volta all’accertamento della risoluzione del contratto preliminare, in questo modo risultando essere sprovvisto delle condizioni per la conclusione del contratto definitivo; per violazione e falsa applicazione degli articoli 1326, 1803, 1571 c.c. e omesso esame di fatti decisivi alla decisione, laddove la corte aveva qualificato il contratto in forza del quale i promissari erano stati immessi nella disponibilità del bene immobile come un contratto di comodato, applicando la relativa disciplina, quando invece doveva considerarsi come una locazione, in forza della presenza di un corrispettivo patrimoniale dovuto dai promissari al venditore.
QUESTIONI
La pronuncia della Corte di Cassazione pone rilievo su due questioni di attenzione:
- l’applicabilità dell’art. 1479 c.c. al contratto preliminare di vendita e la possibilità per il promittente venditore di chiedere la risoluzione di diritto per inadempimento dei promissari acquirenti, quand’anche il promittente non si sia procurato la proprietà del bene da trasferire.
- la corretta qualificazione giuridica del contratto sulla base delle caratteristiche di gratuità od onerosità
Riguardo il primo problema, ossia la determinazione della possibilità per il venditore di far valere la causa di risoluzione di diritto del contratto preliminare di vendita, la Suprema Corte ha evidenziato come presupposto per l’applicazione della clausola risolutiva espressa sia l’inadempimento della controparte contrattuale di colui che intende avvalersene[1]. Nella causa di merito emergeva che il promittente venditore fosse sprovvisto del titolo di proprietario dell’immobile oggetto del contratto al momento in cui citava in giudizio i promissari acquirenti, per avvalersi della clausola risolutiva prevista nel preliminare, la quale appunto contemplava come causa di risoluzione di diritto il mancato rispetto del termine per la stipula del definitivo.
Il ragionamento dei giudici di legittimità parte da una premessa fondamentale, da cui viene poi derivato il principio di diritto utile alla soluzione del caso di specie. Tale premessa consiste nel ritenere inapplicabile al contratto preliminare di vendita l’art. 1479 c.c., ai sensi del quale il compratore in buona fede può chiedere la risoluzione del contratto di vendita se al momento della conclusione ignorava l’altruità del bene. Tale principio necessita di essere letto in collegamento con quanto affermato dalla giurisprudenza prevalente in materia, la quale ha da sempre accolto una qualificazione del contratto preliminare di vendita come un mero pactum de contrahendo, che fa sorgere in capo alle parti un’obbligazione di facere, consistente nella stipula del contratto definitivo, e non già un’obbligazione di dare.[2]
Concordemente, nel contratto preliminare di vendita non sarà possibile ritenere inadempiente il promittente venditore che non sia proprietario del bene, fino alla scadenza del termine pattuito, ben potendo quest’ultimo procurarsi entro la suddetta scadenza il diritto da trasferire alla controparte.[3]
Dopo aver illustrato questa premessa, la Corte perviene dal summenzionato principio alla conclusione che, da un lato, i promissari acquirenti – pur nella consapevolezza dell’altruità del bene – non possono chiedere la risoluzione del contratto prima della scadenza del termine; dall’altro, che gli stessi promissari acquirenti non possono considerarsi inadempienti se, nonostante la decorrenza del termine per la stipula del contratto definitivo, il promittente venditore non sia ancora proprietario del bene.
Ciò che la Corte d’Appello aveva totalmente omesso di prendere in considerazione era proprio la circostanza per cui il promittente non era – al momento della citazione in giudizio – proprietario del bene, per cui non soddisfaceva la condizione per potersi avvalere del diritto a chiedere la risoluzione.
Relativamente alla seconda problematica in commento, ossia la qualificazione del contratto in forza del quale i promissari acquirenti erano entrati nella disponibilità del bene, la Corte di cassazione ha svolto una riqualificazione del negozio giuridico sussistente tra le parti, prescindendo dal nomen iuris che le stesse avevano attribuito al contratto, ma guardando piuttosto alla natura delle prestazioni, alla causa del contratto e soprattutto prestando attenzione alle posizioni reciprocamente assunte.
Nello specifico, si sottolinea come il contratto di comodato abbia una natura essenzialmente gratuita, dove l’interesse del comodante non può avere un contenuto primariamente di natura patrimoniale. Ciò che deve necessariamente sussistere, affinché non sia snaturata la gratuità del contratto, è l’equivalenza tra vantaggi e sacrifici che le parti del comodato conseguono dal negozio.
In questo senso, la Suprema Corte ritiene compatibile con la caratteristica di essenziale gratuità del contratto l’eventuale previsione, a favore del comodante, di un vantaggio patrimoniale indiretto o secondario, purché non arrivi ad integrare la natura di corrispettivo, assurgendo a controprestazione per il godimento della cosa. In linea con la presente interpretazione, la gratuità non è esclusa dall’apposizione di un modus posto a carico del comodatario, per esempio consistente nella consegna periodica di una certa quantità di prodotti del fondo o il pagamento di una somma periodica a titolo di rimborso spese, sempre che sia di entità tale da non assumere le caratteristiche di un corrispettivo per il godimento.
Nel momento in cui tale equilibrio intrinseco alla natura del contratto di comodato difetti, esso dovrà essere riqualificato come una locazione, con conseguente esclusione dell’applicabilità della disciplina codicistica relativa alla facoltà di recesso ad nutum del comodante.[4]
Nel procedimento in commento, il giudice di legittimità si è avvalso della facoltà di non attenersi al nomen iuris attribuito dalle parti al contratto e di qualificarlo diversamente come una locazione, in conformità con l’effettivo contenuto del rapporto negoziale, essendo stata prevista dalle parti la corresponsione in pagamento di una somma pari a Lire 600.000, da versare per il godimento dell’immobile.
[1] Cass. n. 24532/2018
[2] Tra i tanti contributi, si faccia riferimento alla dottrina delle questioni risolte in materia di contratti dagli Avv. Cusmai Raffaele, Cusmai Andrea, Biarella Laura – Smart24 Lex, Il Sole 24 ORE
[3] Cass. n. 925/1997
[4] Cass. n. 4912/1996; n. 9718/1990
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