Risarcimento del danno da mobbing
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 17 aprile 2019, n. 10725
Salute e sicurezza sul lavoro – mobbing – condotta persecutoria – richieste continue – privazione mansioni – richiesta dimissioni
Massima
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assuma di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica: ne consegue che è legittima la condanna inflitta al datore per il risarcimento del danno da mobbing laddove la condotta persecutoria si è esplicata nelle continue e pressanti richieste di chiarimenti al dipendente sulle sue assenze per malattia e sulle cure mediche, nella privazione della parte più rilevante delle mansioni al rientro dalla malattia e nella richiesta di dimissioni rifiutata dal medesimo.
Commento
Nel caso in commento una lavoratrice impugnava il licenziamento intimatole dalla società per superamento del periodo di comporto chiedendo altresì il risarcimento del danno subito. Sia il giudice di primo grado che la Corte d’appello, ponendo a fondamento delle rispettive decisioni sostanzialmente le medesime ragioni di fatto, accertavano la ricorrenza nel caso concreto degli estremi della condotta datoriale vessatoria integrante mobbing e, conseguentemente, riconoscevano alla lavoratrice la tutela risarcitoria richiesta. Difatti i giudici di merito accertavano, sulla scorta delle testimonianze rese e della c.t.u. espletata, che il comportamento datoriale si era tradotto in continue e pressanti richieste di chiarimenti alla lavoratrice circa le sue assenze per malattia e circa le sue cure mediche, nella privazione della parte più rilevante delle mansioni della stessa al rientro dalla malattia e nella richiesta di dimissioni rifiutata dalla medesima. Anche la Suprema Corte, adita dalla società, ha condiviso le conclusioni dei giudici di merito osservando che la condotta vessatoria non va ricercata nell’illegittimità dei singoli atti ma nell’intento persecutorio che li accompagna e li unifica, che deve essere provato da chi lamenta di avere subito la condotta vessatoria. Tuttavia la legittimità dei singoli atti può avere rilevanza indiretta perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, è sintomo dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta mobbizzante unitariamente considerata. Inoltre secondo la Cassazione i giudici di merito avevano correttamente inquadrato la responsabilità per mobbing nell’ambito applicativo dell’art. 2087, in quanto ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, siccome in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dal citato art. 2087 c.c..
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