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Cass. civ. Sez. III, 29 ottobre 2019, n. 27592 – Pres. Spirito – Rel. Rossetti

[1] Diffamazione a mezzo stampa – Diritto all’onore – Diritto alla reputazione – Continenza verbale – Scriminante – Responsabilità civile – Verità putativa – Interesse pubblico alla diffusione – Diritto di cronaca e critica

(Cod. civ. art. 2043 c.c.)

[1] “L’esimente della verità putativa dei fatti narrati, idonea ad escludere la responsabilità̀ dell’autore d’uno scritto offensivo dell’altrui reputazione, sussiste solo a condizione che: a) l’autore abbia compiuto ogni diligente accertamento per verificare la verosimiglianza dei fatti riferiti; b) l’autore abbia dato conto con chiarezza e trasparenza della fonte da cui ha tratto le sue informazione, e del contesto in cui, in quella fonte, esse erano inserite; c) l’autore non ha sottaciuto fatti collaterali idonei a privare di senso o modificare il senso dei fatti narrati; d) l’autore, nel riferire fatti pur veri, non abbia usato toni allusivi, insinuanti, decettivi”.

[2] “In tema di diffamazione a mezzo stampa, l’applicabilità della scriminante rappresentata dalla continenza verbale dello scritto che si assume offensivo va esclusa allorquando vengano usati toni allusivi, insinuanti, decettivi, ricorrendo al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, all’artificiosa drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre e alle vere e proprie insinuazioni.”

 CASO

[1-2] Il caso origina dalla pubblicazione, sul sito internet di una Onlus, di un articolo ove, utilizzando informazioni provenienti da comunicati della DIA, l’autore lasciava intendere che un soggetto fosse persona vicina alla criminalità organizzata e, segnatamente alla n’drangheta calabrese, con allusioni alla formazione, inspiegata altrimenti, della ricchezza personale dello stesso.

La Corte d’appello, in riforma della sentenza del Tribunale di Genova che constatava la violazione del diritto all’onore e alla reputazione, riteneva, invece, che l’articolo fosse espressione legittima dell’esercizio del diritto di critica, rispettoso della continenza verbale e che, in ogni caso, vi fosse la buona fede dell’autore e, quindi, la verità putativa dei fatti narrati, essendo, gli stessi, tratti da fonte autorevole, ossia i comunicati della DIA.

SOLUZIONE

[1-2] La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso, ricorda in primis che la tutela di diritti quali il diritto alla reputazione e all’onore, da un lato, e quello alla libera manifestazione del pensiero dall’altro, passa attraverso il vaglio della sussistenza di tre requisiti concorrenti: interesse pubblico alla diffusione delle notizie o dell’opinione; la verità putativa dei fatti narrati; la continenza delle espressioni usate nello scritto, la cui contestuale presenza esclude la lesione della reputazione.

La Corte si sofferma, quindi, su tali elementi specificandone il contenuto e la portata e conclude affermando che, nel caso di specie, tali requisiti non siano stati rispettati e, di conseguenza, non consentono di scriminare la condotta dell’autore.

QUESTIONI

[1-2] La sentenza in commento riveste una particolare importanza in quanto consente di fare delle precisazioni sulla responsabilità civile per lesione dell’altrui reputazione.

In primo luogo, occorre premettere che il diritto all’onore ed alla reputazione è un diritto fondamentale della persona così come la libertà di manifestazione del pensiero è una libertà fondamentale dell’individuo.

Quando il diritto all’onore e alla reputazione viene a confliggere con la libertà di pensiero la prevalenza andrà assegnata all’uno od all’altra a seconda che sussistano o meno: l’interesse pubblico alla diffusione della notizia o dell’opinione; la verità putativa dei fatti narrati e la continenza delle espressioni adottate. Rispettate queste tre condizioni, il diritto all’onore sarà sempre recessivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero.

L’assenza del primo requisito, ossia l’interesse pubblico alla diffusione della notizia, costituisce lesione in re ipsa del diritto all’onore e alla reputazione per ciò solo sufficiente per rendere illecita la diffusione, anche qualora sia rispettosa della verità putativa e della continenza verbale.

Per quanto attiene, invece, al limite della verità putativa, va, anzitutto, ricordato che il giornalista o lo scrittore, il quale riferisca fatti lesivi della reputazione di terzi, non va incontro a responsabilità civile qualora quei fatti, al momento in cui vennero appresi dall’autore, gli apparivano verosimili.

Affinchè operi questa scriminante, in particolare, sono necessari due elementi, uno oggettivo e l’altro soggettivo.

Dal punto di vista oggettivo, è necessario che i fatti, poi rivelatisi falsi, fossero non manifestamente implausibili.

Dal punto di vista soggettivo, invece, è necessario che l’autore dello scritto abbia compiuto “ogni sforzo diligente” per accertare la verità di essi, alla stregua della diligenza esigibile dal giornalista medio, secondo la previsione dell’art. 1176 co. 2 c.c.

Se dovesse ritenersi che, all’esito di tali valutazioni, quei fatti sarebbero apparsi verosimili a qualsiasi giornalista mediamente diligente, l’autore dello scritto sarà scriminato.

Se, invece, dovesse ritenersi che quei fatti sarebbero apparsi inverosimili od anche solo dubbi a qualsiasi giornalista mediamente diligente, l’autore dello scritto non sarà scriminato (così da ultimo Cass. sez. III n. 9799/2019 e, nello stesso senso, Cass. sez. I n. 22042/2016; Cass. sez. III n. 18174/2014; Cass. sez. III n. 23366/2004; Cass. sez. III n. 2066/2002).

Per stabilire, quindi, se l’autore abbia diligentemente saggiato l’attendibilità della sua fonte di informazioni occorre avere riguardo a tutte le circostanze del caso, ed in particolare:

  1. la qualità della fonte di informazione del giornalista, giacché il dovere di verifica da parte di quest’ultimo sarà tanto meno accurato, quanto più autorevole sia la fonte dell’informazione;
  2. la diffusività del mezzo col quale viene veicolata l’informazione da parte del giornalista, giacché il suo dovere di controllo dovrà essere tanto più zelante, quanto maggiore sia la potenziale diffusività del mezzo d’informazione che intende adoperare.

Per quanto attiene alla circostanza sub a), quando la fonte delle informazioni riferite dal giornalista sia un provvedimento giudiziario, un atto di indagine, un provvedimento amministrativo, il rigore nella valutazione della diligenza del giornalista si attenua, non essendo da questi esigibile un controllo sul merito dell’atto. Ciò, però, non vuol dire che colui il quale riferisca fatti oggettivamente calunniosi, estratti da uno dei suddetti provvedimenti, possa ritenersi sempre e comunque esente da responsabilità.

Infatti, colui il quale riferisca fatti appresi da una fonte del suddetto tipo, ha sempre e comunque il dovere:

  1. di dare conto chiaramente che si tratta di fatti riferiti da terzi, e non di fatti direttamente noti al giornalista (Cass. sez. III n. 2751/2007);
  2. di non tacere altri fatti, di cui egli sia a conoscenza, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato (Cass. sez. III n. 14822/2012), come ad esempio nel caso l’articolista taccia sul fatto che le indagini di cui si dà conto risalivano a molti anni addietro (Cass. sez. III n. 11259/2007);
  3. di non accompagnare i fatti riferiti con sollecitazioni emotive, sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore false rappresentazioni della realtà (Cass. sez. III n. 14822/2012; Cass. sez. III n. 16917/2010).

I suddetti precetti vanno osservati dal giornalista in quanto costituiscono presidio della presunzione di non colpevolezza, la quale impedisce al giornalista di suscitare ad arte nel lettore la ferma opinione che una persona non condannata debba reputarsi colpevole (Cass. sez. III n. 22190/2009).

La valutazione della diligenza con cui il giornalista ha accertato la verità putativa dei fatti –

circostanza sub b) – deve avvenire tenendo conto anche della potenziale diffusività del mezzo di comunicazione utilizzato. Mezzi di comunicazione a diffusione potenzialmente universale ed incontrollabile, come la televisione e, a maggior ragione, il web, richiedono una diligenza di grado massimo nell’accertamento della verità putativa da parte del giornalista, in considerazione della maggiore potenzialità offensiva della diffusione di notizie non vere (Cass. sez. III n. 7154/1992).

Per la consolidata giurisprudenza di legittimità, quindi, il rispetto della verità putativa non può dirsi sussistente solo perchè l’autore abbia riferito di fatti appresi da una fonte giudiziaria, poliziesca od amministrativa. Sussiste, in definitiva, solo qualora l’autore riferisca da dove ha appreso quei fatti; non taccia fatti connessi o collaterali di cui sia a conoscenza; non ricorra ad insinuazioni allusive con riferimento ai fatti riferiti; si attivi con zelo e prudenza nel vagliare la verosimiglianza dei fatti riferiti.

Per quanto riguarda, invece, la continenza verbale dello scritto che si assume offensivo, per la giurisprudenza della Corte Suprema, tale requisito non consiste soltanto nella forbitezza del linguaggio in quanto, infatti, può dirsi non rispettoso della continenza verbale anche lo scritto che ricorra al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, all’artificiosa drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, alle vere e proprie insinuazioni (principio pacifico da trent’anni: in tal senso si veda Cass. sez. I n. 5259/1984; Cass. sez. III n. 14822/2012; Cass. sez. III, n. 16917/2010; Cass. sez. III n. 11259/2007).

Ed infatti, come afferma la Corte nella sentenza in epigrafe, «uno scritto allusivo od insinuante, anche quando fondato su fatti veri, può riuscire, in concreto, molto più pernicioso per l’onore altrui rispetto ad uno scritto vituperoso, giacché mentre questo sollecita il riso, quello suscita il dubbio, che molto più del primo corrode la reputazione di chi ne sia investito».

In conclusione la sussistenza dei predetti requisiti, secondo le coordinate ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza di legittimità, consente di scriminare la condotta del giornalista e far prevalere la libertà di manifestazione del pensiero escludendo, di conseguenza, la responsabilità civile per lesione dell’altrui reputazione.

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