Parità di trattamento in materia di occupazione: la direttiva n. 78/2000/CE
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 12 novembre 2019, n. 29289
Licenziamento – Inidoneità fisica sopravvenuta – Malattia di lunga durata – Equiparazione alla disabilità – Condotta discriminatoria
Massima
La nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere ricostruita in conformità al contenuto della direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione, quindi quale limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.
Commento
La Corte di Appello, riformando la pronuncia del Giudice di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato dalla società ad un lavoratore in quanto discriminatorio per ragioni di disabilità e condannava la società alla reintegrazione del reclamante nel posto di lavoro e al pagamento della retribuzione mensili dalla data del licenziamento sino alla reintegrazione. Secondo il ragionamento attuato dalla Corte territoriale – esaminando nel merito il vizio di nullità del licenziamento discriminatorio per ragioni di disabilità, richiamata la direttiva 78 del 2000, come interpretata dalla giurisprudenza la Corte di Giustizia nonché del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 4, che ha sostituito gli articoli contenuti nei decreti legislativi di attuazione della direttiva nell’ordinamento interno – l’onere della prova deve essere ripartito in modo tale da attuare, nel contesto del ragionamento presuntivo di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., un’effettiva agevolazione del soggetto che agisce per la tutela, per cui era onere del lavoratore allegare e provare (i) il fattore di rischio, (ii) il trattamento subito ritenuto discriminatorio, (iii) il miglior trattamento attuato nei confronti dei lavoratori in posizione equiparabile alla sua, deducendo (iv) una correlazione significativa fra questi tre elementi in termini di verosimiglianza della discriminazione; era onere invece della datrice di lavoro dedurre e provare circostanze non equivoche, idonee ad escludere, con precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio e dunque non disabile, che si fosse trovato della stessa posizione della ricorrente. Alla stregua degli elementi di fatto emersi e accertati nel corso del giudizio, la Corte di appello riteneva che il ricorrente avesse assolto i propri oneri processuali mentre la tesi difensiva svolta dalla Società, secondo cui il lavoratore sarebbe stato licenziato per essere divenuto inabile e non ricollocabile in diverse mansioni, oltre ad essere rimasta priva di riscontri probatori, anteponeva una giustificazione attinente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, mai adottato dall’azienda e al quale comunque si sarebbe potuti addivenire solo a seguito degli accertamenti e delle valutazioni di cui di cui all’art. 42, D.Lgs. n. 81 del 2008 che impone al datore l’adibizione del lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute. Per la cassazione della sentenza di appello la società proponeva ricorso. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha osservato come la nozione di handicap, ai sensi della direttiva 2000/78, dev’essere intesa come limitazione, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Secondo il Supremo Collegio l’articolo 7, paragrafo 2, della richiamata direttiva consente di introdurre una distinzione basata sulla disabilità, a condizione che essa rientri tra le disposizioni relative alla protezione della salute e della sicurezza sul posto di lavoro o tra le misure intese a creare o mantenere disposizioni o strumenti al fine di salvaguardare o promuovere l’inserimento delle persone con disabilità nel mondo del lavoro. Pertanto, una simile distinzione, a favore delle persone con disabilità, contribuisce alla realizzazione dello scopo della direttiva sancito all’articolo 1 di quest’ultima, ossia la lotta alle discriminazioni fondate sugli handicap, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo, nello Stato membro interessato, il principio della parità di trattamento. La Suprema Corte, confermando pertanto il puntuale ragionamento formulato dalla Corte di Appello, ha richiamato la più recente giurisprudenza di legittimità riaffermando come la nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita in conformità al contenuto della direttiva, come interpretata dalla Corte di Giustizia, quindi quale “limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”. Per tutto quanto sopra la Corte Suprema ha rigettato il ricorso e condannato la società ricorrente al pagamento delle spese.
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