L’ordinanza in commento, Cass., 8 luglio 2024, n. 18547, contiene importanti statuizioni in tema di licenziamento ritorsivo, in particolare con riferimento all’identificazione della fattispecie in situazioni di fatto ove il confine tra la nullità e la semplice illegittimità del licenziamento non appare di facile tracciabilità.
Nel caso in esame, un lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo, sostenendo che la motivazione addotta e descritta dal datore di lavoro, con riferimento alla situazione economica e organizzativa del reparto cui era addetto il dipendente, fosse soltanto apparente e pretestuosa, mentre la vera ragione del recesso sarebbe stata la reazione vendicativa dell’azienda al rifiuto opposto dal lavoratore alla trasformazione del suo rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
Come noto, la consolidata giurisprudenza di legittimità, applicata e recepita dalle sentenze di merito, ha costruito con completezza il quadro teorico dei principi di riferimento, sostanziali e processuali, in tema di licenziamento ritorsivo: il licenziamento ritorsivo, ossia intimato per rappresaglia, quale reazione ingiusta del datore di lavoro a fronte di una condotta legittima del lavoratore, è radicalmente nullo e, come tale, porta quale conseguenza l’applicazione della tutela reintegratoria piena.
Perché il licenziamento possa essere qualificato come ritorsivo, è necessario che la ragione illecita sia l’unica fondante il licenziamento, rimanendo esclusa la possibilità di operare una ponderazione di più causali che, se esistenti e dimostrate, rendono il licenziamento valutabile in termini di legittimità/illegittimità, ma non più di nullità.
Infine, l’onere della prova della sussistenza del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore, mentre il datore di lavoro è ordinariamente onerato di dimostrare la sussistenza e legittimità delle ragioni poste a base del licenziamento (da ultimo, si vedano Cass., 9 gennaio 2024, n. 741; Cass., 3 agosto 2023, n. 23702, con nota di Aiello,
Licenziamento ritorsivo: ampia tutela del lavoratore tra nullità del licenziamento e reintegra nel posto di lavoro, in
Labor, 6 febbraio 2024; Cass., 7 marzo 2023, n. 6838; nel merito, la recente Trib. Roma, 10 aprile 2024, n. 4272, con nota di Galleano,
Un ennesimo caso di licenziamento ritorsivo annullato dal giudice, con reintegra e risarcimento pieno del danno, in
Labor, 23 maggio 2024).
Nella sentenza in commento, il tema del licenziamento ritorsivo si intreccia con l’espressa sanzione di illegittimità posta dall’ordinamento per il caso di recesso intimato in conseguenza del rifiuto del lavoratore di trasformare il suo rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, o viceversa: l’art. 8, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 prevede infatti che
«il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento».
Tale norma è stata di recente oggetto di due pronunce della Suprema Corte, di segno diverso ma fondate sul medesimo principio di diritto.
Con la prima, Cass., 23 ottobre 2023, n. 29337 (con nota di Grivet Fetà,
Licenziamento come conseguenza del rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno: giustificato motivo di recesso o violazione di legge?, in
Labor, 23 febbraio 2024), è stata confermata la legittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice con orario part-time che aveva rifiutato la trasformazione del rapporto a tempo pieno: la Corte ha infatti ritenuto che l’inutilizzabilità per l’azienda del rapporto part-time fosse stata debitamente motivata e dimostrata dal punto di vista organizzativo e, pertanto, costituisse idoneo fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato.
La seconda pronuncia, Cass., 30 ottobre 2023, n. 30093 (con nota di Grivet Fetà,
Rifiuto del lavoratore part-time opposto alla modifica della collocazione dell’orario di lavoro ed ampliamento dell’onere della prova del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in
Labor, 24 febbraio 2024), ha invece dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice che si era opposta alla modifica della collocazione del suo orario di lavoro part-time, ritenendo che il datore di lavoro non avesse sufficientemente dimostrato che proprio tale modifica sarebbe stata l’unico modo per evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In entrambi i casi, dunque, la Suprema Corte ha affermato un principio importante dal punto di vista della corretta interpretazione della norma di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. 81/2015 all’interno del complessivo ordinamento giuslavoristico: la norma non vieta qualunque ipotesi di licenziamento collegato al rifiuto della trasformazione dell’orario di lavoro, ma, enunciando chiaramente che il rifiuto della trasformazione non può costituire in sé ragione di recesso, obbliga la parte datoriale ad argomentare puntualmente e con completezza l’impianto motivazionale che, anche passando per la mancata trasformazione dell’orario, ha reso inevitabile il licenziamento.
Va da sé che, dunque, l’unico licenziamento che può essere intimato nel rispetto della norma di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. 81/2015 è il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con esclusione di qualunque forma di licenziamento disciplinare che consideri condotta sanzionabile il rifiuto della modifica dell’orario di lavoro.
Su un caso ancora più simile a quello di specie, la Suprema Corte si era pronunciata pure di recente, con l’ordinanza 9 maggio 2023, n. 12244 (con nota di Aiello,
Il rifiuto del lavoratore di trasformazione del rapporto di lavoro in part-time tra licenziamento per giustificato motivo oggettivo e licenziamento con intento ritorsivo del datore, in
Labor, 2 luglio 2023), ove il lavoratore, licenziato per giustificato motivo oggettivo per dichiarata impossibilità di utilizzare la sua prestazione se non ad orario ridotto, aveva lamentato il carattere ritorsivo del licenziamento.
La Suprema Corte, affermata l’illegittimità del licenziamento per carenza nella dimostrazione dell’inevitabilità del recesso, ha però escluso il carattere ritorsivo del recesso, per assenza di una efficacia determinativa esclusiva della ragione di rappresaglia; ha però evidenziato che, nel legittimo ricorso a indici presuntivi per individuare l’eventuale ritorsività, l’omessa dimostrazione della veridicità delle ragioni poste a base del recesso costituisce certamente un indizio di ritorsività che può e deve essere valutato e tenuto in considerazione dal Giudice.
La sentenza in commento interviene nel panorama sopra sintetizzato con alcuni spunti di novità di particolare interesse. Nel caso di specie, infatti, la particolarità valorizzata dalla Suprema Corte consiste nell’assenza, a differenza di quanto accaduto negli altri casi, dell’espressa menzione del tema della (mancata) trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale all’interno della motivazione del licenziamento.
Il datore di lavoro, infatti, aveva motivato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo con riferimento alla (asserita) situazione di crisi e difficoltà del reparto (non solo non dimostrata, ma fattualmente smentita in giudizio), senza accennare in alcun modo all’avvenuta richiesta di riduzione dell’orario di lavoro e al rifiuto opposto dal lavoratore.
Per questo motivo, argomenta la Corte, il rifiuto della modifica dell’orario di lavoro, a differenza di quanto occorso nei casi decisi con le sentenze sopra menzionate, nemmeno entra nell’impianto motivazionale del licenziamento e quindi non può costituire, in sé, oggetto di indagine per valorizzare le ragioni economico-organizzative poste a base del recesso.
Di conseguenza, prosegue la Corte, non ha pregio la difesa datoriale per cui il licenziamento potrebbe essere dichiarato al limite soltanto illegittimo, ma non nullo, posto che la norma di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. 81/2015, nel prevedere che il rifiuto di trasformare l’orario di lavoro non può costituire giustificato motivo di licenziamento, sancisce la semplice illegittimità del licenziamento intimato in violazione della norma, ma non commina alcuna sanzione di nullità.
Viceversa, dato che il rifiuto della trasformazione dell’orario di lavoro nemmeno può essere preso in considerazione dal Giudice all’interno della motivazione del licenziamento, perché non menzionato dal datore di lavoro, la valutazione effettuata sul punto può essere soltanto alla luce della denuncia di ritorsività spiegata dal lavoratore, che, onerato della prova sul punto, ha richiamato tale rifiuto per allegare e dimostrare che il recesso ne ha costituito l’illecita e vendicativa reazione datoriale.
La sentenza in commento, per quanto molto chiara nella propria argomentazione, lascia tuttavia ancora aperti i problemi connessi alla labilità del confine esistente tra le diverse valorizzazioni del rifiuto della trasformazione dell’orario di lavoro in relazione al tema del licenziamento.
In sostanza, rileggendo congiuntamente le ultime sentenze qui menzionate oltre a quella in esame, emerge che, da una parte, è legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a fronte del rifiuto del dipendente di modificare il suo orario di lavoro, laddove tale modifica sia dimostrata come l’unica alternativa al licenziamento; dall’altra parte, è nullo, perché ritorsivo, il licenziamento che non trovi alcuna altra motivazione (valida e dimostrata) se non la reazione datoriale al rifiuto opposto dal dipendente alla trasformazione dell’orario di lavoro.
Resta tuttavia aperto il tema della semplice illegittimità del licenziamento intimato in violazione della norma di cui all’art. 8, comma 1, d.lgs. 81/2015, che in sostanza rimarrebbe limitata ai casi in cui la trasformazione dell’orario di lavoro, domandata dall’azienda e rifiutata dal dipendente, si presenta come una richiesta non pretestuosa né irragionevole del datore di lavoro, ma non costituisce l’unica alternativa al recesso per giustificato motivo oggettivo, potendosi individuare altre e diverse soluzioni.
Nonostante l’apparente chiarezza di una simile interpretazione, sembra elevato il rischio che la stessa porti, con la valutazione rimessa nelle mani del Giudice circa le alternative preferibili o meno, ad una possibile violazione del principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali, che, come noto, trova fondamento direttamente in una norma costituzionale (art. 41 Cost.) ed è stato anche positivizzato, nel corso di una stagione legislativa particolarmente complessa, nell’art. 30, comma 1, l. 4 novembre 2010, n. 183.
Sabrina Grivet Fetà, dottore di ricerca e avvocato specialista in Reggio Emilia
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Cass., ordinanza 8 luglio 2024, n. 18547
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Rivista Labor - Pacini Giuridica.